STORY TITLE: Stanza 212 
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Stanza 212

by mattonly
Viewed: 71 times Comments 0 Date: 31-08-2025 Language: Language

Io, loro e la stanza socchiusa

Era novembre del 2021. Mi trovavo alle Canarie per lavoro, ma quello che avrebbe dovuto essere un breve viaggio di tre giorni si trasformò in un mese intero. La pandemia di Covid aveva reso il mondo un incubo collettivo: restrizioni, voli cancellati, hotel semivuoti. Quella sera, nella hall quasi deserta dell’albergo, appresi che anche il mio volo di rientro era stato annullato. Un contrattempo che, all’inizio, mi gettò nello sconforto, ma che presto si rivelò il preludio a un incontro che non avrei mai dimenticato.

Mentre mi avvicinavo al bancone della reception per prolungare il soggiorno, la notai. Lei. Una donna che sembrava emergere da un quadro, accompagnata da suo marito. Italiani, come me. Lei era alta, mora, con occhi scuri e profondi come quelli di una cerbiatta, lo sguardo magnetico di chi sa incatenare un uomo senza nemmeno toccarlo. Avrà avuto poco più di quarant’anni, eppure possedeva quel fascino raro e velenoso delle donne che non passano mai inosservate.

I nostri occhi si incontrarono quasi subito. Io la fissavo, immobile, con il cuore che accelerava all’improvviso. Lei, invece, ricambiava lo sguardo con una naturalezza disarmante, come se lo avesse atteso, come se sapesse già che in quella hall semivuota ci sarebbe stato qualcuno pronto a cadere nella sua rete. Fu allora che il mio sguardo scivolò più in basso, verso la sua caviglia. Una cavigliera d’argento brillava sotto la luce artificiale, posata sulla pelle abbronzata della sua gamba destra. Un dettaglio semplice, ma così sensuale da tagliarmi il respiro.

Quando rialzai lo sguardo, lei sorrise. Un sorriso lento, quasi segreto, che sapeva di complicità. Poi passò accanto a me, sfiorandomi con la fragranza del suo profumo, mentre suo marito mi salutava cordialmente, senza cogliere nulla di quello scambio silenzioso. Li osservai allontanarsi verso l’ascensore, finché le porte si richiusero davanti a me. Rimasi lì, con il cervello in fiamme, incapace di pensare ad altro che non fosse quella donna, il suo sorriso, quella cavigliera che pareva un invito.

Quella notte dormii poco. Uscito a cena per distrarmi, rientrai in camera con l’immagine di lei stampata nella mente, come un’incisione a fuoco. Mi domandavo se quel gioiello alla caviglia fosse solo un dettaglio frivolo, o piuttosto un’esca. Ero inquieto, ma al tempo stesso eccitato all’idea che quell’isola, nella mia forzata prigionia, potesse regalarmi molto più di un soggiorno di lavoro.

La mattina seguente la cercai tra i tavoli della colazione, ma niente. Nessuna traccia. Mi convinsi che fosse stato solo un incontro fugace, destinato a dissolversi nel nulla. Forse non l’avrei più rivista.

Eppure la sera stessa, quando rientrai dopo cena e mi sedetti al bar dell’hotel con un gin tonic, accadde di nuovo. Un taxi si fermò davanti all’ingresso, e subito la vidi scendere. Gambe lunghissime, una minigonna in pizzo nero praticamente inesistente, tacchi altissimi che facevano tremare il pavimento. E quella cavigliera, ancora lei, più luminosa e provocante di prima. Era splendida, irresistibile, più pericolosa che mai.

Loro passarono accanto a me senza notarmi subito, ridendo complici. Ma poi i nostri occhi si incrociarono di nuovo. Lei sorrise, sussurrò qualcosa al marito, ed entrambi scoppiarono a ridere. Si fermarono un istante, come se stessero prendendo una decisione. Poi lei lo prese per mano e lo trascinò al bancone del bar. Mi passarono accanto, salutandomi in italiano, e si sedettero sugli sgabelli di fronte a me.

Il cuore mi batteva forte. La coppia ordinò da bere, scherzava, rideva. Erano visibilmente divertiti, ma c’era qualcosa di diverso negli occhi di lei: un gioco. Un gioco che mi includeva, senza che il marito dicesse nulla. Mi avvicinai, mi presentai. Erano italiani, in vacanza forzata come me. Lui, un avvocato; lei, la sua compagna di studio e di vita. Entrambi avevano deciso di trattenersi sull’isola e trasformare quella prigionia in una parentesi di piacere.

Mentre lui mi parlava, lei giocava. Le gambe si muovevano lentamente, aprendosi quel tanto che bastava per mostrarmi dettagli proibiti, un gesto calcolato, velenoso, impossibile da ignorare. A un certo punto ordinò tre shot di tequila e, dopo averli bevuti, lo guardò dritto negli occhi e disse:
— Amore, andiamo in camera. Tu, se vuoi, tra venti minuti cerca la stanza 212. Passa a darci la buonanotte.

Non c’era nulla da interpretare. Lei lo prese per mano e lo trascinò via. Lui, allontanandosi, non disse una parola. Mi sorrise soltanto.

Io rimasi immobile, con il bicchiere ancora in mano, mentre il mondo intorno sembrava rallentare. Venti minuti. Venti interminabili minuti che sarebbero stati il prologo di qualcosa di imprevedibile. Una porta socchiusa mi stava aspettando, e dietro di loro…

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