STORY TITLE: La magia di Roberta 
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STORY

La magia di Roberta

by ilMarchese76
Viewed: 80 times Comments 0 Date: 31-08-2025 Language: Language

Avevo appena vent’anni quando, al mare, conobbi Roberta. Era una donna bellissima ed elegante, capace di attirare gli sguardi di tutti gli uomini in spiaggia, e non solo. Non era molto alta, ma le sue forme armoniose e sode la rendevano magnetica: non riuscivo a trovare un solo dettaglio del suo corpo che non fosse degno di essere accarezzato. Sì, ero così allora — e lo sono ancora oggi — quando una donna mi piace, anche fisicamente. Il mio primo impulso è sempre quello di toccarla, di sfiorarla, e soltanto dopo viene il desiderio di baciarla, lasciando che tutto si trasformi, passo dopo passo, in qualcosa di più carnale.
Quello che mi colpì di Roberta, però, non fu soltanto la sua bellezza: era l’eleganza. Ogni gesto, anche il più semplice, diventava affascinante, spesso persino erotico. I suoi capelli corti e mossi si muovevano con la brezza del mare, incorniciando una pelle chiara, segno che era ancora ai primi giorni di sole. I suoi occhi, scurissimi e profondi, sembravano contenere un segreto.
Provai a indovinare da dove venisse. C’era qualcosa in lei che mi faceva pensare a una straniera, forse francese. Ma quando la sentii scambiare poche parole con una vicina di ombrellone, capii che era italiana. Anzi, meridionale come me. Non lo avrei mai detto, perché il suo accento non lo lasciava trapelare. La scoperta vera arrivò dopo, in seguito a qualche ora di sguardi rubati tra un ombrellone e l’altro.
Ci ritrovammo al bar del lido. Il proprietario, che era un mio amico, colse l’occasione per farmi un favore:
«Sai che questa bella signora è della tua stessa zona?» disse con un sorriso malizioso.
Fu la scusa perfetta per rompere il ghiaccio. Così scoprii che Roberta era del capoluogo. Io, invece, abitavo in provincia, a pochi chilometri di distanza.
Iniziammo a raccontarci tante cose. Lei parlava di sé con una tranquillità sorprendente, come se ci conoscessimo da sempre. Mi disse che lavorava nello studio di un notaio ormai da diversi anni, praticamente da quando si era laureata. Con un mezzo sorriso, lasciò intendere che, col tempo, aveva finito per cedere alla corte di quell’uomo molto più grande di lei. Non usò mai parole dirette, ma bastava leggere tra le righe per capire che non era davvero felice, che la loro relazione l’aveva imbrigliata in un legame fatto più di abitudine che di passione.
Fu chiaro che quello fosse il suo modo di sventolare una bandiera verde davanti a me. Non che all’epoca, probabilmente, avessi bisogno di incoraggiamenti: la sola sua presenza bastava per farmi desiderare di andare oltre.
Mi disse che sarebbe rimasta al mare ancora per qualche giorno, ma che quasi certamente avrebbe dovuto cambiare lido: aveva deciso all’ultimo di prendersi quella vacanza e non c’erano ombrelloni disponibili per tutto il tempo. Non aspettavo altro: la invitai a condividere il mio, visto che ero da solo. Lei accettò con una naturalezza che mi fece battere il cuore più forte.
Passammo tre giorni incredibili, fatti di sguardi, battute, carezze rubate. Era un continuo stuzzicarci, lasciando crescere la voglia senza mai arrivare fino in fondo. Roberta temeva che qualcuno potesse riconoscerla: quella spiaggia non era poi così lontana dalla nostra provincia, e l’idea di essere vista in atteggiamenti troppo spinti la metteva in imbarazzo. Così i nostri giochi restarono “soft”, ma carichi di tensione, di attesa, di desiderio trattenuto.
Il mare, però, ci regalava la libertà che la riva ci negava. Lontani dagli occhi indiscreti, tra le onde e i riflessi dell’acqua, Roberta si lasciava andare. Lì potevo sfiorarla, toccarla, far scivolare le mani ovunque, mentre lei tremava di piacere. Le sue dita, a loro volta, cercavano le mie, ma anche di più: mi stringeva con forza, percependo la mia eccitazione senza più filtri, senza più barriere.
Erano momenti sospesi, in cui la realtà sembrava restare a riva, e noi due galleggiavamo in un universo a parte, fatto soltanto di pelle, acqua salata e desiderio.
Baci, morsi, carezze: il nostro gioco era rimasto sempre lì, sul filo sottile del non detto. Un gioco meraviglioso e, allo stesso tempo, una tortura che ci consumava giorno dopo giorno. Quando arrivò l’ultimo pomeriggio, l’idea di lasciarla andare via mi pesava addosso. Nulla era ancora accaduto, ma forse era proprio per questo che sentivo crescere in me un trasporto fortissimo, un bisogno di lasciarle un ricordo indelebile.
La seguii senza esitazione. Appena entrò nello spogliatoio, la raggiunsi e chiusi la porta dietro di noi. Le sue pupille, tra l’eccitato e il preoccupato, mi inchiodarono per un attimo. Poi, senza darle tempo di pensare, la presi tra le braccia e la baciai con passione, spingendola piano contro la panchina finché non vi si sedette, docile e complice.
Mi inginocchiai davanti a lei, sollevai le sue gambe poggiando i piedi sulle mie spalle e, scostando il costume, iniziai a baciarla lungo le cosce calde e lievemente umide di sudore, fino ad arrivare al centro del suo desiderio. Il suo odore mi travolse. Era eccitata, gonfia di piacere, e quel sapore intenso mi accese ancora di più. La leccai con forza, affondando la lingua come a volerla penetrare.
Roberta gemeva senza più freni, mi stringeva i capelli e mi tirava a sé, quasi volesse fondere il mio viso con il suo corpo. Il suono della sua voce era troppo forte per quel luogo chiuso: sollevai lo sguardo, e lei mi fissò sorpresa, quasi smarrita. Il suo sguardo mi diceva tutto: “Perché ti fermi?” Sorrisi appena, le posi un dito sulle labbra e sussurrai un “shh”. Lei rise piano, ma quella risata, quasi più sonora dei gemiti, si spense quando tornai a immergermi in lei.
Il suo corpo prese a contorcersi, le sue mani affondavano nei miei capelli tirandoli fino a farmi male. La sentivo tremare e colare tra le mie labbra, fino a bagnarmi il mento. Poi, all’improvviso, un colpo di reni la scosse, e un flusso caldo e improvviso mi invase la bocca e il viso. La panca batté contro il muro, mentre lei si lasciava andare in ondate di piacere che cercai di bere fino all’ultima goccia.
Rimase ansimante, esausta, il cuore che batteva come impazzito sotto la pelle. La strinsi ancora un istante, poi mi sollevai e la baciai con trasporto, mescolando sapori, respiri e complicità.
Uscendo dallo spogliatoio, raggiunsi i lavandini. Lo specchio rifletteva la mia immagine: i capelli arruffati, il volto e la maglietta inzuppati di lei. Sorrisi. Era il segno più bello che potessi portarmi via.
Andai verso il mare, mi tolsi la maglietta e la lasciai cadere sulla sdraio, poi mi tuffai direttamente in acqua. Quando riemersi, la vidi da lontano: camminava via con la sua borsa di filo intrecciato, un vestitino bianco che ondeggiava leggero e quel sorriso che, nascosto a metà dagli occhiali da sole, rimase inciso nella mia memoria più di qualsiasi altra cosa.
Sapevo che non l’avrei più rivista. C’era in me un velo di malinconia, ma non dolore: ero felice di averle lasciato quel ricordo, felice che la mia bocca fosse stata il dono del suo piacere. Pensai che, anche se il destino ci separava, una parte di me sarebbe rimasta con lei, impressa nel suo corpo e nella sua memoria, come un segreto intimo e irripetibile.

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